RIFORME COSTITUZIONALI – Perché farle e in cosa consiste la deroga all’art. 138 della Costituzione

Dai parlamentari

RIFORME COSTITUZIONALI

Perché farle e in cosa consiste la deroga all’art. 138 della Costituzione 

(a cura del deputato Pd Davide Baruffi)

In campagna elettorale il PD e la coalizione di centrosinistra avanzarono la proposta di una “legislatura costituente”, ovvero la necessità di dedicare – a fianco dell’azione di governo – un impegno speciale per la riforma della politica e delle istituzioni. In particolare:

a)      La legge sui partiti, la loro democrazia e trasparenza, il loro finanziamento;

b)     La revisione della seconda parte della Costituzione;

c)      La razionalizzazione dei regolamenti parlamentari;

d)     La nuova legge elettorale.

Un quadro di riforme organiche da realizzare col concorso del più ampio schieramento possibile: le regole si cambiano insieme, come pretende la Costituzione. Si tratta di ambiti d’azione diversi che, pur legati tra loro – nell’idea di superare definitivamente il ventennio alle nostre spalle e rigenerare il rapporto tra cittadini e politica – vanno affrontati con strumenti diversi, alcuni di rango costituzionale, altri attraverso leggi ordinarie. Appartengono a questo secondo campo la legge sui partiti e il finanziamento pubblico (la proposta di legge approvata dalla Camera) e la legge elettorale, già incardinata al Senato.

Al primo campo va invece ricondotto il più complesso lavoro di riscrittura della seconda parte della Costituzione, tema ampiamente dibattuto e mai risolto a partire dagli anni ’70. E’ su questo che vorrei soffermarmi con questa nota, per chiarire alcune questioni. Le indico per come mi vengono spesso poste dalle persone che incontro o sulla rete.

 

Perché riformare la Costituzione?

La seconda parte della nostra Costituzione si sta rivelando non più idonea a realizzare la prima parte, quella dei principi. Un Parlamento fatto di due camere sostanzialmente uguali, elette sostanzialmente nello stesso modo, che esercitano la stessa identica funzione non è più la garanzia di democrazia e l’argine contro il ritorno di forme autoritarie che i padri costituenti avevano concepito nel ’48. Questo “bicameralismo perfetto” oggi non ha eguali nel resto del mondo e sta diventando un freno e un limite al procedimento legislativo, alla funzione stessa del Parlamento. Non a caso abbiamo assistito al ricorso progressivo e ormai abnorme alla decretazione d’urgenza e ai voti di fiducia. Non essendo il Parlamento efficiente e tempestivo nella legiferazione lo si scavalca, lo si imbriglia, lo si coarta. E quindi, a Costituzione vigente, il Parlamento risulta snaturato rispetto al disegno concepito dai costituenti.

Occorre dunque una sola camera dei rappresentanti dei cittadini, che approva le leggi e dà e toglie la fiducia al Governo.

Lo stesso numero dei parlamentari – 945 eletti tra Camera e Senato – non trova oggi più alcuna ragion d’essere. L’aveva certamente nell’Italia del dopoguerra, in un tempo in cui non esistevano gli attuali strumenti di comunicazione e le distanze apparivano incolmabili. Oggi un eletto dispone di mezzi molto diversi per relazionarsi con le istanze del territorio, conoscere le cose e far conoscere le proprie idee e il proprio operato. Ridurre il numero dei parlamentari non deve essere lo slogan populista contro la politica e “i politici”, ma il modo per dare più efficienza, funzionalità e sobrietà ad un’istituzione oggi pletorica. L’idea che il Parlamento non ridurrà mai il numero dei parlamentari proprio perché questi agirebbero per autotutela ci sta uccidendo: è indispensabile passare dagli enunciati ai fatti e dimostrare che il Parlamento può essere riformato in modo equilibrato e funzionale agli interessi del Paese.

A questa necessità di riforma si lega quella che riguarda il suo funzionamento, disciplinato principalmente dai regolamenti parlamentari. Una riforma che voglia ridare prestigio, autorevolezza e funzionalità al Parlamento deve rivisitarne il funzionamento, il modo in cui si formano e funzionano i gruppi politici (per arginare pratiche opportunistiche di passaggio da un partito all’altro, di formazione di nuovi gruppi per ricevere risorse pubbliche, ecc.) e il procedimento legislativo stesso (l’ostruzionismo, per fare un esempio, ha rappresentato nel tempo una via estrema e spesso nobile di battaglia politica: oggi il suo abuso sta scadendo nel sistematico sabotaggio del funzionamento delle camere). Ad un Parlamento riformato deve corrispondere insomma un suo funzionamento più snello, efficiente, produttivo.

Riaffermare la centralità del Parlamento e in esso il ruolo delle minoranze non è in contrasto con una razionalizzazione della forma di governo: occorre un parlamentarismo rafforzato, che eviti due derive opposte tra cui rischia di oscillare la situazione attuale: l’assemblearismo e l’autoritarismo. E’ giusto che sia il premier a nominare e sfiduciare i propri ministri come è giusto che il procedimento legislativo si realizzi in tempi congrui; limitando drasticamente, viceversa, il ricorso alla decretazione d’urgenza e rafforzando i poteri di indirizzo e controllo del Parlamento, nonché la sua autonomia circa i provvedimenti di natura finanziaria (oggi le camere sono di fatto ostaggio dell’esecutivo, attraverso la Ragioneria dello Stato).

Infine è indispensabile riordinare la Repubblica e le sue istanze: Stato, Regioni e Autonomie locali. Riformando queste ultime in una logica di riduzione e semplificazione e riordinando il Titolo V (le prerogative delle diverse istanze della Repubblica). Dando infine, attraverso un Senato delle Regioni e delle autonomie, una camera di compensazione al nuovo assetto “federale” della Repubblica. Dopo che la Consulta ha bocciato il riordino delle province fatto dal Governo Monti, il Governo Letta ha licenziato un nuovo disegno di legge (questa volta, giustamente, costituzionale) per l’abolizione delle province. Si tratta di un obiettivo giusto a patto che, questa volta, sia inserito in un più organico ridisegno del governo del territorio, ivi compreso l’assetto degli uffici periferici dello Stato. Il problema non può essere affrontato solo togliendo un pezzo, occorre un progetto. Anche di questo deve occuparsi la riforma costituzionale.

E’ davvero la Costituzione il problema?

La Costituzione non è il problema ma la radice e l’ancora democratica del nostro Paese. Additare la Costituzione come il problema è  fuorviante e pericoloso. Come è sbagliato, viceversa, imbalsamarla come una reliquia mentre assistiamo, anno dopo anno, ad una torsione della nostra democrazia che pure si sta producendo a Costituzione vigente. Ho accennato alla decretazione d’urgenza che ha di fatto spogliato il Parlamento della sua funzione legislativa. Ma pensiamo anche a come la legge elettorale ha, nei fatti, svuotato di senso la parola “rappresentanza” e ribaltato rapporti e poteri costituzionali: è il candidato premier che nomina e dà fiducia ai parlamentari. O, infine, pensiamo al conflitto permanente sulle competenze tra Stato e Regioni generato dalla riforma del Titolo V della Costituzione.

Con la legge costituzionale che si sta approvando sarà possibile modificare tutta la Costituzione?

No. Non solo perché la Corte Costituzionale, attraverso sentenze, ha sancito come indisponibile a modifica ordinaria la prima parte della Carta (quella dei principi), ma perché la legge costituzionale in discussione prevede esplicitamente quali siano le parti passibili di modifica: definisce cioè un perimetro preciso entro cui il Comitato (e poi il Parlamento) potranno muoversi. Le riforme riguarderanno unicamente la seconda parte della Costituzione, ad esclusione della Giustizia.

Perché modificarla attraverso una procedura che deroga a quella definita dall’art. 138?

Il Parlamento, volendo fare una riforma organica della seconda parte della Costituzione – e quindi non una riscrittura totale del testo né, viceversa, la modifica di uno o pochi articoli – ha ritenuto che non fossero percorribili le due strade maestre a disposizione: l’art. 138 per le modifiche molto limitate o il ricorso ad un’assemblea costituente (per la riscrittura generale). Non è la prima volta che questo accade (con le precedenti bicamerali si fece altrettanto): l’istituzione di un Comitato per le riforme – bicamerale, al pari delle esperienze precedenti, ma una composizione più vantaggiosa per le minoranze, al fine di sterilizzare il premio di maggioranza ricevuto da PD e Sel col “porcellum” – è funzionale ad una riscrittura organica, coordinata, di parti della Costituzione.

D’altro canto, contrariamente a quanto alcuni sostengono, la deroga all’art. 138 non altera in alcun modo la “rigidità” e le garanzie previste per la revisione costituzionale: non si alterano le maggioranze qualificate richieste, il numero dei passaggi parlamentari, la possibilità di ricorso al referendum confermativo. Si riducono viceversa i tempi della staffetta parlamentare a fronte di una garanzia in più a disposizione delle minoranze e dei cittadini: anche qualora le riforme fossero approvate dalla maggioranza dei due terzi sarà infatti facoltà delle minoranze adire al referendum per consultare tutti i cittadini.

Perché modificare la Costituzione insieme al centrodestra?

Le regole, in democrazia, si scrivono insieme, tra avversari e comunque tra diversi. Le regole non debbono mai essere appannaggio di una parte perché questa sarebbe l’anticamera della tirannia. In questi anni sono stati compiuti diversi errori, che hanno accresciuto le distanze e lo scontro: sbagliò il centrosinistra a modificare unilateralmente il Titolo V della Costituzione; sbagliò il centrodestra a tentare di imporre la cosiddetta devolution; fu un errore molto grave anche l’introduzione di una nuova legge elettorale ottenuta dal centrodestra a colpi di maggioranza (il cosiddetto “porcellum”). Sono errori che non possono essere ripetuti: le regole si scrivono insieme e su queste va ricercato il consenso più ampio. Ecco perché non ci rassegniamo a vedere una parte delle minoranze chiamarsi fuori per principio. Sarà nostro compito ricercare il confronto più largo e aperto dentro e fuori il Parlamento.